
La recensione
Nell’augurare una prontissima guarigione a Nanni Moretti, dedichiamo la recensione di Gabriele Giuliani a “Il sol dell’avvenire“: una volta al mese, Gabriele ci propone riflettessioni su alcuni film tratti da libri o pellicole particolarmente interessanti dal punto di vista della trama e dei personaggi.
Una perfetta chiusura del cerchio!
È la prima cosa che ho pensato ammirando le scene finali di quest’ultimo film di Nanni Moretti. Un film “pieno” di contenuti e riferimenti, ma che considero giocoso nel senso più ampio del termine; si ride, si sorride, nonostante un velo di malinconia e rassegnazione del tempo passato e della speranza ormai tramontata, temi che lo pervadono fin dal primo fotogramma.
Ma c’è tutto Moretti in questa pellicola; il suo impegno politico, l’amore per il cinema, la difficoltà dei rapporti umani, delle relazioni, la sua vena ironica e autoironica, tanti richiami ai suoi film precedenti. Il tempo passa per tutti e con il tempo si fa la storia e la Storia, come cantava de Gregori, siamo noi, tutti noi.
Parte della storia del cinema nostrano l’ha fatta anche Moretti, a modo suo mi verrebbe da dire. Un bel modo mi permetto di sottolineare.
Rivedo il me ventenne rapito dalle scene di “Caro diario” del 1993. Un regista, un uomo e la sua vespa in una Roma desolata e assolata ma colorata. Un sogno ad occhi aperti per chi ama la città eterna.
Nelle lunghe cavalcate sull’ormai celebre vespa, Nanni ci portava a vedere alcuni dei luoghi più belli e suggestivi di Roma, fatta eccezione per Spincaceto, s’intende, una cavalcata scanzonata, allegra, fatta per stare bene.
Gli anni passano, dicevamo, e la storia è stata scritta, ma questo non impedisce di interpretarla. Così il regista Moretti abbandona la vespa ma non rinuncia a girare in monopattino a piazza Mazzini; è sempre lui, siamo sempre noi che ci adeguiamo.
Se sull’isola di Salina palleggiava su un campo di terra battuta, lanciando il pallone su, su, sempre più su, qui la stessa scena è riproposta sul finto set del Quarticciolo, sede della sezione comunista, ma la solitudine del protagonista (regista) è la stessa. Ma stavolta serve una panchina perché gli anni sono appunto passati, la stanchezza arriva molto prima. Ci si deve arrendere a questa realtà.

Sempre il regista Moretti non rinuncia alla sua critica feroce verso il cinema spazzatura, pieno di azione e di violenza e vuoto di contenuti, ferocia fine a se stessa, e se in “Caro Diario” si divertiva a tormentare un critico per aver elogiato “Henry – Pioggia di sangue”, ora è il turno di sequestrare un’intera troupe cinematografica e il suo regista morbosamente attratto dalla violenza. Un giorno intero rapiti dalle stravaganze e dai deliri di un regista che è proprio lui, Moretti nella sua verve autoironica. Sono scene che fanno male al cinema, a chi le vede, a chi le gira, ci dice. E ha ragione.
Il tempo passa, sì, ma certe cose restano per fortuna.
È sempre il regista che ci parla delle difficoltà dei rapporti, di mantenerli inutilmente vivi e degli inevitabili addii che ne seguono, dove una delle due parti resta a soffrire. Un tema già sperimentato nelle pellicole precedenti.
Infine, il regista ci comunica quanto ami il cinema portandoci, ancora una volta, a vedere un film nel film, passeggiando a Cinecittà nei teatri di posa e set allestiti pronti per girare. Un studio, una cucina, un soggiorno, una redazione, un intero quartiere ricostruito.
La magia del cinema.
E qui non rinuncia alla stoccata contro il monopolio istituito oggi dalle grandi corporazioni, la loro aridità e pragmatismo, Netflix in primis e i suoi centonovanta paesi in cui è visto. Un altro segno dei tempi che davvero dovrebbe farci esclamare il celeberrimo“What The Fuck “. Le conseguenti facce stralunate di Moretti sono forse le scene più divertenti del film. Ma sono anche facce reali di sgomento nell’osservare la globalizzazione diventata omologazione applicata a cinema e tv. Una sequenza sciocca e ripetitiva di costruzioni a tavolino per uno storytelling facile e sempre uguale. Venti secondi per catturare lo spettatore oppure addio, guarderà altro.

Una triste realtà che ci tocca da vicino anche in editoria.
L’appiattimento e l’abbrutimento del mondo di oggi, della società degli uguali. La ribellione a un sistema mai amato ha reso Moretti regista di nicchia, certo non per tutti, ma alla fine popolare abbastanza per lasciare una traccia profonda con la sua opera.
E così il regista Moretti maturo e l’uomo Nanni disilluso ci portano nel viaggio giocoso e metanarrativo della costruzione di un film che è una metafora.
Nel film (vero) narra la storia del regista e i suoi tomenti familiari e riflessioni sulla società mentre è in procinto di girare il film (finto) che ci parla di Ennio, segretario della sezione comunista nel 1956 quando scoppia la ribellione a Budapest. A Roma arriva il circo Budavari e la storia si intreccia e si riscrive. Forse non è il film sul pasticciere trotzkista nell’Italia degli anni Cinquanta che Nanni ci aveva promesso trentun anni fa, ma l’anima è la stessa ed è un’anima giocosa come ho già detto.
Il fallimento della sinistra italiana è ormai una rassegnazione per gli ex girotondini, D’Alema non può dire più nulla di sinistra, e allora perché non divertirsi? Perché non riscrivere nel film (finto) trasponendo poi nel film (vero) una realtà diversa?
Stalin era un dittatore? Allora “strap”! Niente foto sul manifesto. Soffocare la ribellione ungherese nel sangue era una scelta giusta? No. Allora il partito Comunista italiano si dissocia e prende la sua strada.
Le storie si snodano su due piani temporali. Quello del film (vero) che tratta i temi del lasciarsi, del cinema di oggi, del disincanto. Poi quello del film (finto) e della storia della sezione comunista del quarticciolo dove la Storia si può e si deve cambiare, perché se la speranza è morta i sogni non lo sono mai. Il tutto in un continuo intersecarsi di storie e personaggi che poi è solo un’unica grande storia e i personaggi siamo noi.
C’è anche tanta bella musica in questo film di Moretti, da “Think” di Areta Franklin a “Sono solo parole” di Noemi per finire con le note di “Ti voglio vedere danzare” del maestro Battiato, in una scena epica quanto poetica in cui tutti, troupe vera e finta, balla girando su se stessa. È l’ultimo sfogo, l’ultimo spunto ribelle e felice del film prima della sua apoteosi. Perché lasciarsi andare, danzare, è meraviglioso, liberatorio, ci si può ritrovare e decidere che il mondo lo possiamo cambiare come vogliamo noi, perché il finale delle storie lo scriviamo noi. Oppure, riscriverlo a volte. Commovente. Come le musiche un po’ magiche e circensi di Giafranco Piersanti che accompagnano la pellicola fino alla bellissima scena finale.

Del resto un film musicale è sempre stato il pallino di Nanni e qui, come nel “Il Caimano” giogioneggia cantando a squarciagola prima in macchina e poi di nuovo il piano sequenza ci riporta nel film (vero) mentre si gira il film (finto).
La morte di tutto è il nucleo del film.
La morte del comunismo, del protagonista (finto) delle illusioni, delle giovinezza, degli ideali, dell’amore. Noi però ci abbiamo provato, siamo fieri e orgogliosi sembra dirci il regista e allora sorridiamo, la nostra parte l’abbiamo fatta e possiamo concederci il lusso di una sfilata salutando e sorridendo. È un Moretti che accetta la sconfitta ideologica ma non rinuncia ai sogni, e il viaggio, che ancora non è finito, merita non solo un finale adeguato, ma anche un ringraziamento a tutti quelli che ne hanno fatto parte. Chi c’è, chi c’è stato e chi non può più esserci.
Ecco allora la scena finale del film (vero) in cui quasi tutti gli attori delle opere di Moretti sfilano nella via tra le più belle di Roma, con una luce meravigliosa e allegra, in un saluto corale e gioioso, perché morirà pure tutto, ma i sogni e la gratitudine no. E così i due film e la realtà si fondono insieme in una passerella che è un saluto finale in cui si congeda anche il regista stesso.
Un sorriso per chi è dentro lo schermo; un sorriso unito a una lacrima per chi è fuori.
Godiamoci questo film di Nanni, magari in poltrona con la sua coperta usata in “Sogni d’oro”, magari girando in vespa, magari facendo solo le cose che ci fanno stare bene.
Sono grato a Moretti per il suo cinema e gli perdono di non averci fatto vedere il musical sul pasticciere trotzkista e sul nuotatore tratto dal racconto di Cheever.
Ma chissà, in fondo, c’è ancora tempo.